Stereotipi e falsi miti accompagnano spesso ciò che sappiamo di balbuzie e ansia. La dottoressa Giada Sera, Psicologa del Centro Medico Vivavoce, ci spiega come aiutare il bambino che balbetta. 

Dottoressa, possiamo dire che l’ansia causa la balbuzie?

La relazione tra ansia e balbuzie è un argomento molto discusso e purtroppo porta a molti luoghi comuni. Si tende infatti a pensare che la balbuzie sia causata da uno stato d’ansia particolarmente intenso. Ma non è così.

Immaginiamo un bambino che deve chiedere qualcosa alla maestra o un adulto che deve prendere un caffè al bar. A causa della loro difficoltà di fluenza sanno già, ancora prima di iniziare a parlare, che non riusciranno. 

Se fossimo noi in quella situazione che emozione proveremmo? Ascoltiamo il nostro corpo, sentiamo anche noi un po’ lo stomaco che si chiude, il respiro che si strozza o il battito cardiaco che aumenta?

Sì, questa è ansia. Ma l’ansia è una conseguenza della balbuzie. Perché deriva dal sapere, già prima di parlare, che non riuscirò a dire quello che voglio dire, oppure lo dirò con molta fatica. Sono numerose le ricerche scientifiche che lo dimostranoInoltre, l’impatto emotivo della balbuzie non è riducibile all’ansia. 

Ecco perché il Centro Medico Vivavoce opera anche per creare una nuova cultura sulla balbuzie, che possa contrastare gli stereotipi e i luoghi comuni diffusi.

Ci sono altre conseguenze della balbuzie?

Essendo la balbuzie un fenomeno complesso, il suo impatto non è esclusivamente sulla fluenza. Crea, infatti, altri condizionamenti. 

L’impatto della balbuzie sulla sfera emotiva, sull’attitudine comunicativa (cioè la disponibilità a parlare) e sulla qualità di vita è estremamente variabile da persona a persona. Entrano in gioco sia il temperamento sia il contesto.

Ad esempio, tutti noi possiamo immaginare la frustrazione – un mix di emozioni che di solito coinvolge tristezza e rabbia – provata quando non riusciamo a dire quello che vogliamo. La tolleranza alla frustrazione (al di là della balbuzie) dipende da due elementi. La persistenza personale, cioè la capacità di perseverare nonostante la fatica, è un tratto del temperamento. Invece, la capacità di fronteggiare le difficoltà, gli imprevisti o gli sbagli dipende dal contesto, ad esempio, il rapporto con i genitori.

A prescindere dalla fascia d’età, l’impatto che la balbuzie genera viene gestito in maniera differente.

Cosa succede a un bambino che balbetta?

La balbuzie esordisce mediamente tra i due e i tre anni

Ma è con l’ingresso a scuola che il bambino inizia a entrare in un contesto particolare. Viene valutato per ciò che fa, sia a livello didattico sia in altri ambiti: sport, musica… Tutto ciò che prima era un gioco, adesso è oggetto di valutazione. Anche il rapporto con gli altri cambia: il bambino sceglie sempre più consapevolmente i propri amici.

Sperimentando la difficoltà nell’esprimersi con i coetanei e gli adulti, il bambino balbuziente potrebbe iniziare ad associare il parlare a una fatica o a un disagio. 

Con l’adolescenza un ragazzo balbuziente potrebbe vivere con maggiore difficoltà questa fase della vita. Se a causa della balbuzie soffriva già il confronto con i pari, in questo periodo potrebbe aumentare il suo senso di inefficacia. Pensiamo, ad esempio, al maggiore interesse per le relazioni sentimentali, tipico di questa fase dello sviluppo. 

L’adolescenza è un momento di transizione. In questa fase la personalità va a strutturarsi sempre di più, a prescindere dalla balbuzie. Se durante l’infanzia il punto di riferimento erano i genitori, a quest’età il gruppo di pari diventa fondamentale. È il momento in cui si riduce al minimo la comunicazione con gli adulti e si esce sempre di più con gli amici. 

Cosa può fare un genitore quando un figlio balbetta?

Nel bambino e in parte nell’adolescente il ruolo del genitore è fondamentale. I consigli da seguire sono pochi e semplici:

  • Osservare il figlio e la sua difficoltà: come si presenta, in quali situazioni, la pervasività e la persistenza. Bisogna osservare soprattutto la risposta che il bambino o adolescente mette in atto (dice lo stesso quello che vuole dire o evita di parlare?). La strategia messa in atto potrebbe diventare causa stessa di sofferenza per il balbuziente. Ad esempio, un ragazzo che vorrebbe approcciare una ragazza ma che non lo fa per la balbuzie, sta abbassando nell’immediato l’ansia. In seguito però, potrebbe svalutarsi e colpevolizzarsi per aver evitato quel momento.
  • Favorire un confronto aperto su tale difficoltà, evitando di creare un tabù sull’argomento: bisogna spiegare cosa è la balbuzie e far passare il messaggio che è superabile. È importante ascoltare in maniera empatica, cogliendo la reale sofferenza. Non si deve lasciare che il figlio interpreti male gli aspetti non verbali (tutti ricordiamo lo sguardo del papà arrabbiato o della mamma preoccupata). Se invece se ne parla verbalmente, non si lascia adito a errori. 

A volte i genitori si sentono in colpa…

Sì, è vero. Talvolta, la balbuzie crea una risposta emotiva anche nel genitore: colpa, tristezza, rabbia, ansia.

È importante che il genitore sia consapevole che la balbuzie del figlio non dipende da lui. Bisogna informarsi e conoscere meglio la difficoltà di cui si parla.

Le emozioni vanno accettate: è normale preoccuparsi o dispiacersi per il proprio bambino. Tali emozioni, se non eccessivamente alte, aiuteranno ad affrontare l’argomento con il figlio e a favorire una proattività alla risoluzione del problema.

Naturalmente questi suggerimenti non sostituiscono il percorso riabilitativo, ma possono aiutare a limitare l’impatto emotivo della balbuzie e lo sviluppo di un limite da parte del bambino. Nel caso in cui la balbuzie permanga oltre i sei anni, si consiglia di intraprendere un percorso riabilitativo integrato e multidisciplinare.

Foto: Freepik, Nensuria

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Giada Sera

Giada Sera

Psicologa Clinica e Psicoterapeuta

Svolge attività di consulenza psicologica e psicoterapia, con una particolare esperienza nella terapia di adolescenti e giovani. Laureata in Psicologia Clinica, dello Sviluppo e Neuropsicologia, presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca e specializzata in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale. È consulente sessuale (titolo A.I.S.P.) e ha ottenuto un Master di II livello in Neuropsicologa presso l'U.C.S.C di Milano.

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