BALBUZIE
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“Buongiorno, io sono…” Cosa c’è di più facile di presentarsi! Ma se per te quei 3 puntini di sospensione non sono solo un vuoto da riempire con il tuo nome, ma un abisso di blocchi, di ripetizioni, di spinte, di emissioni di fiato e di movimenti fuori posto allora non è più così facile. Questo è quello che succede a chi balbetta.
“Il mio nome è Cathy, ma spesso mi presento come Anne, perché è più facile da pronunciare”, racconta Cathy Olish, membro del consiglio direttivo della NSA National Stuttering Association . E non si tratta di un caso raro.
Anche Kyle, un giovane assistente museale, racconta un’esperienza qualcosa di simile sul sito TheMighty :
“Forse per me la difficoltà più irritante e scoraggiante associata alla balbuzie è quel semplice compito di dover pronunciare il mio nome: Kyle. Mi sono trovato in infinite situazioni in cui ho incontrato sconosciuti e non sono stato in grado di dire il mio nome quando interrogato. La risposta negli occhi di chi ascolta è di terrore o di completo sbalordimento : ‘Hai dimenticato il tuo nome?’… presentarsi con un altro nome, Mike, per esempio o John, perché sono più facili da pronunciare, avrebbe ricadute più gravi che rimanere bloccato sul mio nome… anche se devo ammettere che di tanto in tanto lo faccio, in posti come Starbucks per esempio, dove mi chiedono il nome per segnarlo sull’ordine”.
E non si tratta certo di un’esperienza esclusivamente anglofona: tra i partecipanti ai nostri corsi, abbiamo ascoltato tante storie simili. Per esempio, Carlo, un giovane informatico che quando conosceva una ragazza si presentava sempre con un nome diverso, il primo nome che gli passava per la testa per evitare quel suono “CA”.
Perché quando ci si presenta, si definisce la propria identità al gruppo sociale. Chi sei? Sono uno che balbetta. La tua identità sociale rischia di ridursi a questo. Non quello che dici, ma come lo dici sta definendo la tua identità: all’improvviso, non sei più Marco, Giovanni o Luisa sei “quello che balbetta”.
Proviamo ad affrontare il tema delle presentazioni da una prospettiva leggermente diversa, quella dell’antropologia: presentarsi è un vero e proprio rituale, con una serie di regole socio-linguistiche che si suppone siano condivise dal gruppo. Ci sono, per esempio, turni di parola da rispettare. Ci sono regole legate al contesto o agli interlocutori presenti: non si usano le stesse parole per presentarsi sul posto di lavoro o in discoteca, con una donna o con un anziano. Generalmente, non si urla e si mantiene un tono di voce pacato, a meno che non ci si trovi allo stadio.
Ci sono anche delle aspettative linguistiche: se mi trovo negli Stati Uniti si darà per scontato che io mi presenti in inglese, non in italiano. Nella maggior parte dei gruppi sociali composti da normofluenti, c’è l’aspettativa che chi si presenta, parli fluentemente, senza balbettare.
Il modo in cui queste regole vengono o non vengono rispettate, determina in qualche modo anche le successive dinamiche relazionali, dinamiche di potere: chi balbetta in un contesto di non balbuzienti è alla stregua di una minoranza linguistica, uno straniero che non parla la stessa lingua degli “altri”.
Ad essere più consapevoli di questa legge implicita “non si deve balbettare quando si parla” sono proprio le persone che balbettano. Per questo si sentono in imbarazzo o perfino in colpa quando devono presentarsi, tanto da preferire di presentarsi con un nome falso. Ma che cosa succede allora quando il gruppo è costituito da persone che balbettano?
È quello che si è domandato un antropologo californiano, Nathaniel W. Dumas, in una ricerca del 2012, intitolata More than hello: Reconstituting sociolinguistic subjectivities in introductions among American Stuttering English speakers e pubblicata sulla rivista Language e Communication
Dumas ha svolto un’indagine etnografica sul campo, partecipando e osservando lo svolgimento delle riunioni di alcuni gruppi della Stuttering Organization of America (SOA). La caratteristica di questi gruppi, formati generalmente da persone che balbettano ma che occasionalmente includono anche normofluenti (parenti o specialisti), è sintetizzabile nello slogan ‘‘If you stutter, it’s okay.’’
Molte delle conversazioni riportate dall’antropologo trattano esplicitamente il “problema” della balbuzie, anche in riferimento a contesti socio-linguistici difficili come le presentazioni o le telefonate. Il tema tabù, motivo di imbarazzo, può essere affrontato in questa comunità e reinquadrato da un punto di vista diverso, un punto di vista in cui la persona che balbetta non è più la minoranza.
Oltre a questo, l’antropologo mette in evidenza un piccolo episodio avvenuto in uno dei gruppi. Piccolo episodio che però è indice di un sovvertimento, di una piccola rivoluzione culturale.
Nel gruppo della città di Temple l’attività di presentarsi al gruppo è promossa a ogni incontro e regolata secondo specifiche norme: seduti in cerchio, ciascuno si presenta con il proprio nome, si parla per qualche minuto di sé, del proprio lavoro, della vita privata ecc e si chiude passando il turno. Il giro di presentazioni vale per tutti i nuovi arrivati, inclusi quelli che non balbettano.
Insomma sembra una situazione piuttosto “normale” che non dà segnali sovversivi. Ma veniamo all’episodio.
Nick sta raccontando delle sue difficoltà sul lavoro, dato che si trova a viaggiare spesso e incontrare persone sconosciute a cui deve presentarsi. È focalizzato sulla sua “identità di balbuziente”, riesce a parlare del suo disagio e lo fa anche se continua a balbettare. Ma all’improvviso uno degli altri partecipanti al gruppo, anche lui balbettando, lo interrompe con una domanda. una domanda semplice semplice, formulata anch’essa balbettando: “Come mai stai viaggiando tanto per lavoro?” … e all’improvviso tutta la conversazione si ribalta. Si comincia a parlare non della balbuzie, ma della persona.
La rivoluzione in atto nel gruppo è proprio questa: il modo di parlare non determina più l’identità della persona né l’argomento di discussione.
Se l’identità della persona non si limita al suo essere balbuziente, allora ci si può presentare anche come viaggiatore. O come esperto di informatica. O come designer di moda. O come appassionato di automobili…e così via
Insomma ci si può presentare con il proprio nome e tutta la complessità che ci sta dentro, a quel nome.
Presentarsi senza balbettare è un desiderio comune a tutte le persone che balbettano: grazie a metodi sempre più efficaci di rieducazione non è solo un desiderio, ma qualcosa di concretamente realizzabile. Quello che ci mostra questo studio è quanta forza possono avere le aspettative sociali e come siano difficili da disinnescare determinati meccanismi culturali.
Ricordarsi di essere una persona a 360 gradi e non un balbuziente è una regola che vale anche quando la balbuzie è scomparsa. Insieme alla rieducazione motoria della produzione del linguaggio è necessario rieducare la nostra identità sociale. E non sarebbe una cattiva idea anche quella di educare la società nella quale vivono le persone che balbettano, promuovendo un vero e proprio cambiamento culturale.
A cura di Francesca Memini
Foto Flickr perzonseo.com