“Parlano come se il governo di casa tua consistesse interamente di quel che tu devi fare dei bambini. Un bel po’, invece, consiste della domanda disperata di che cosa i bambini faranno di te.”

G. K. Chesterton

Quando è iniziato tutto questo e le scuole hanno chiuso, come insegnante ho avuto un pensiero che da allora non mi ha abbandonato: vedere i ragazzi. E farmi vedere da loro.

Per farlo, per vedersi intendo, c’è voluto un po’. Alcune scuole sono partite subito, altre dopo, ma alla fine tutte, percorrendo strade differenti più o meno lineari, sono arrivate dove ogni strada educativa conduce: al rapporto. In questi due mesi le infinite comunicazioni di scuole in ansia da prestazione si sono sfoltite, i fitti silenzi di altri istituti spaesati fino all’immobilismo hanno lasciato spazio a qualche timida proposta. Così gradualmente e in altra forma gli insegnanti sono tornati a fare l’appello. Un docente si connette, guarda la sua faccia nel computer, fa un respiro poi chiede: ci siete? E aspetta che qualcuno da qualche parte dica: presente.

Così si è sempre cominciato, così si comincia anche oggi e così iniziano i problemi, ora accentuati dalla DAD (Didattica a distanza). Sì, perché adesso una volta fatto l’appello non si può più chiudere la porta della classe, per il semplice fatto che la porta non c’è. Non si possono vedere gli alunni perché spengono la telecamera e non si può più di tanto chiedere di intervenire perché i ragazzi si “mutano” (così dicono togliendo il microfono).

Gli insegnanti e la sfida della didattica a distanza al tempo del coronavirus

Non si può valutarli come si deve perché copiano e soprattutto, grande cruccio dell’insegnante, non si può neanche essere certi che stiano ascoltando perché forse, mentre tu parli, quelli non ci sono già più ed è rimasta solo un’icona sul computer con le loro iniziali. La porta non si può chiudere e il docente o dirigente che ancora con le unghie e con i denti si tiene aggrappato alla maniglia è destinato, dopo uno sforzo titanico, a rimanere con niente in mano, se non la maniglia stessa sradicata dalla forza della libertà.

La libertà di cui parlo però non è solo quella degli alunni che, nel bene o nel male, l’hanno sempre vissuta, ma quella degli stessi insegnanti. Noi privati ognuno delle proprie sicurezze, dalle quattro mura dell’aula fino a “sei politici” o criteri di valutazione tanto legnosi quanto la porta della classe, rischiamo di trovarci davanti a un muro ancora più arido degli intonaci scrostati delle nostre scuole: lo schermo del computer.

Quale libertà occorre vivere quindi? Una sola: esserci.

Parafrasandolo, Chesterton chiede non che cosa i docenti devono fare degli alunni, ma che cosa gli alunni se ne faranno dei docenti. Bene: gli alunni dei docenti possono farsene molto, ma è altrettanto vero che possono farsene niente. Niente. Sono liberi.

E noi? Siamo liberi al punto da accettare, seppur con dolore, che di me l’altro non se ne faccia niente?

Parlando davanti a un monitor, lanciando come naufraghi un messaggio in una bottiglia nella speranza che qualcuno lo riceva, ci chiediamo di cosa sia fatta la nostra libertà. A mio parere la risposta è da cercare proprio nel legame tra noi e la forza del messaggio che lanciamo, oggi più che mai una richiesta di salvataggio: il nostro.

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Cosa e come deve comunicare l’insegnante con la didattica a distanza?

Privati di tutto, a partire dal tempo di lezione adesso così ostico, cosa è chiamato a comunicare un insegnante? Quale messaggio mandare aldilà dello schermo?

Da due mesi i miei alunni tengono i loro Diari Clandestini. Li abbiamo chiamati così in onore di Giovanni Guareschi che dal lager di Beniaminovo scriveva: «Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. È inutile, signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi».

I ragazzi, anche loro chiusi ma in casa, si mettono al computer e scrivono. Eccone uno.

22/04/2020. Ore 6:46
Ho preso il brutto vizio di vegliare di notte e dormire di giorno, però questa cosa da una parte mi aiuta perché le giornate passano più in fretta e non le sento più di tanto. Si dice che la notte porta consiglio, a me porta pensieri e riflessioni su tante cose, sono sempre stato uno molto pensieroso e riflessivo e in questi giorni lo sono ancora di più. Spesso mi succede che non ho più voglia di fare niente, come se volessi staccarmi da tutto ciò che mi circonda, però è in questi momenti che bisogna reagire. Mia mamma continua a lavorare a fare turni su turni per fronteggiare questa emergenza che è in corso nel nostro paese, come in tutto il mondo.

Sono pagine vive. Sono una testimonianza, cioè unica e vera comunicazione.

Se anche la scuola prendesse sul serio la domanda su cosa veramente comunicare potremmo riuscire a navigare non solo nelle acque burrascose del Covid ma anche in quelle più stagnanti dei programmi ministeriali.

Così forse anche la maturità potrebbe essere occasione di vera sintesi. Mi dicono che sarà un grande colloquione informe. Comunque sia ci sarà sempre qualcosa di ben delineato: i volti. Compariranno di nuovo in tutta la loro franchezza. E sarà ancora una volta, come ogni giorno nella vecchia classe, uno spietato faccia a faccia.

 

Citazioni:

Gilbert Keith Chesterton, La famiglia, regno della libertà, Macerata, Leardini Guerrino (2019)

Guareschi Giovanni, Diario clandestino (1943-1945), Milano, Rizzoli (2017)

 

Foto di Julia M Cameron da Pexels

Pietro Viscardi

Pietro Viscardi

Docente e Scrittore

Laureato in Lettere Moderne, ha insegnato per dieci anni nella scuola secondaria di primo grado. Attualmente è docente in un istituto professionale statale. Ha pubblicato per BolisEdizioni il romanzo “Allegro andante” e collaborato con Edizioni Itaca alla revisione e riedizione del manuale di grammatica italiana “Nel suon il senso”.

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