PSICHE
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La comorbidità (o comorbilità) è definita come:
ogni distinta entità clinica aggiunta, che c’è stata o può comparire durante il decorso clinico di un paziente che è sotto osservazione per una determinata patologia.
In poche parole, la comorbilità è la presenza concomitante di due o più disturbi nella stessa persona.
La balbuzie nei bambini può essere correlata a disturbi quali DSA (dislessia, disgrafia, discalculia), ADHD (deficit di attenzione e iperattività) o sindromi genetiche. Tuttavia la compresenza di questi disturbi non implica una connessione diretta tra le loro cause.
Negli adulti questo termine può essere utilizzato nel caso in cui un paziente soffra contemporaneamente di diabete e di una malattia cardiovascolare.
Il concetto di comorbidità nasce in ambito medico. Il primo utilizzo di questo termine è attribuito all’epidemiologo americano Alvan R. Feinstein il quale nel 1970 lo inserì in uno studio sulle malattie croniche.
Per uno specialista identificare questa coincidenza di disturbi è difficile a causa di sintomi che possono essere connessi a più diagnosi. La nozione di comorbilità, tuttavia, è importante in ambito medico in quanto permette di tenere conto dei differenti sintomi che possono manifestarsi a causa di una stessa malattia, in relazione alla presenza o meno di altre patologie. In medicina questo concetto quindi è estremamente utile sia per la scelta della terapia, sia per una corretta valutazione dei risultati delle cure.
Il termine comorbilità viene oggi utilizzato in ambito psichiatrico e psicologico, seppur causando qualche disaccordo. Secondo lo psicolologo e psicoterapeuta tedesco Hans-Ulrich Wittchen, infatti, il concetto originario di questo termine non potrebbe essere applicato alla maggior parte degli attuali lavori psicologici e di clinica psichiatrica per descrivere la sovrapposizione tra diagnosi.
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Fonti
Gaspare Vella, Massimiliano Aragona (1998), La comorbidità in Psichiatria , I Clinica Psichiatrica, Università La Sapienza, Roma.